Nives MEROI


Vai ai contenuti

donne e alpinismo

RACCONTI

DONNE E ALPINISMO

RELAZIONE CONVEGNO DI BELLUNO - 28.10.1999
“STORIA ALPINISTICA DELLE DONNE NEL ‘900”

Il mio, più che un intervento, potrebbe essere l’inizio di un dibattito dal titolo:
perché è mancata e manca tuttora una concreta presenza femminile in Himalaya.
Più di ogni altra, la storia dell’alpinismo himalayano è scritta al maschile, a cominciare dallo spirito romantico dei primi tentativi di Mummery, fino alle imprese eroiche nazionaliste strumentalizzate dai sistemi per affermare una presunta superiorità nazionale e razziale.
L’alpinismo himalayano è stato fin dall’inizio un terreno di gioco esclusivo per uomini.
Un episodio è rappresentativo: nel 1924 un’alpinista francese scrisse al Comitato Inglese per l’Everest, chiedendo di partecipare alla spedizione che stavano organizzando. Il Comitato, stupefatto per l’ardire, rispose che era impossibile accogliere richieste di signore di qualsiasi nazionalità, perché le difficoltà sarebbero state troppo grandi.
A parte qualche raro caso come la sfortunata spedizione femminile di Claude Kogan al Cho Oyu, le donne hanno incominciato a salire gli 8000 solo negli anni ‘70.
Nel ‘75 la giapponese Junko Tabei salì l’Everest a capo di una spedizione femminile, ma ad oggi poche sono state le donne che hanno segnato con la loro attività la storia alpinistica himalayana.
Qualche nome: Wanda Rutkiewich morta sul Kanchenjunga dopo aver salito nove ottomila, Allison Hergrawes, grande alpinista solitaria morta sul K2, Chantal Mauduit anche lei con 5 ottomila all’attivo e morta lo scorso anno. Altri nomi: Liliane Barrad, Maria Stremfelj, l’italiana Valentina Lauthier.
Comunque poche grandi figure, non attorniate né seguite da una effettiva presenza femminile.
Nella mia esperienza himalayana, anch’io ho incontrato pochissime donne.
Anche in campi base affollati come all’Everest, Cho Oyu o Shisha Pangma, su una popolazione di oltre un centinaio di alpinisti solo un 10% scarso era costituito da donne.
I motivi credo siano diversi.
Uno può essere il fatto che l’organizzazione è generalmente in mano agli uomini, che forse spesso discriminano la donna che offre meno garanzia di forza fisica, ma solo quella e forse neanche quella.
Un altro motivo può essere dovuto al fatto che in genere per un giovane è difficile far fronte gli elevati costi che una spedizione comporta, e quando, con gli anni, si raggiunge la disponibilità finanziaria che permette di partire (comunque a fatica, e con pesanti tagli alle spese nei bilanci familiari) , di solito a quel punto le donne sono già madri, e non se la sentono di lasciare i figli a casa e quindi rinunciano a favore del marito, per tradizione più libero di muoversi anche per lunghi periodi.
A volte è anche un limite che per prime si pongono le donne, non ritenendosi in grado di affrontare le fatiche e le difficoltà che una spedizione comporta.
All’interno di questo quadro, la mia situazione penso sia una delle più fortunate. Condivido questa passione con Romano, mio marito; e nelle mie spedizioni ho sempre incontrato persone -
anzi - uomini che non avendo bisogno di imporre il loro predominio, hanno permesso di non perdere tempo ed energie in sfide e beghe da campo base, per concentrarsi esclusivamente sulla salita.
Io al massimo, ho portato qualche chilo in meno nello zaino, ma il rapporto è sempre stato paritario: stessi doveri e stessi diritti.
Il problema è sempre stato più rivolto all’esterno, verso l’opinione pubblica che preferiva vedermi come l’elemento decorativo del gruppo, non ritenendomi adatta, in quanto donna, ad affrontare questo tipo di attività.
E questo rappresenta un’ulteriore limite all’espansione dell’alpinismo femminile in Himalaya.
Tuttora una donna, per porsi all’attenzione del pubblico, impiega più tempo ed energie di un uomo e in questo la responsabilità è anche della stampa.
Probabilmente il bacino d’utenza delle riviste di settore è maschile, e quindi generalmente fatto dagli uomini, per gli uomini. Parlare tanto di donne non sarebbe funzionale alle vendite.
E qui si innesca un meccanismo a catena, perché finché non si divulgano le seppur poche esperienze femminili, non si da la possibilità ad altre donne di acquisire dati, termini di paragone, e familiarità con questa forma di alpinismo.
Se fino ad ora nessuna donna è arrivata alla fine della gara per i 14 ottomila, questo non vuole dire che i risultati delle donne debbano essere trascurati, anche perché, e questo vale per tutti, non è detto che la bravura e la fantasia di un alpinista si misuri con le cime raggiunte.
Le regole del gioco, i metri di valutazione sono stabiliti da uomini, così come le regole comportamentali e le rigorose definizioni di stili (alpino/ himalayano, professionismo, spedizioni commerciali) un labirinto di regole sempre più ferree e alla fine sempre meno rispettate.
Ma se è vero che ciascuno vive l’alpinismo, come ogni altra attività umana, dall’interno del proprio orizzonte psicologico, emotivo, culturale, è evidente che ciascuno va in montagna con un diverso atteggiamento e una diversa finalità.
E forse io, come donna, quando voglio adeguarmi al modello maschile, continuo a ripetere l’errore di cercare in me qualità che non ho, trascurando di coltivare quelle che possiedo, che non sono né superiori né inferiori a quelle di un uomo, ma semplicemente diverse.-

HOME PAGE | NEWS | SPEDIZIONI | RACCONTI | GALLERIA MULTIMEDIALE | CONFERENZE | CONTATTI | SOLIDARIETA' | LINKS | Mappa del sito


Torna ai contenuti | Torna al menu